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"L’universo al confine della paura: la vita e le opere di H.P. Lovecraft (una piccola guida)" di Stefano Donno
L’universo al confine della paura: la vita e le opere di H.P. Lovecraft (una piccola guida) di Stefano Donno. “Non vi è un solo narratore di horror, fantascienza, weird, soprannaturale, grottesco – sia contemporaneo che successivo a H.P. Lovecraft – che non si sia ad egli ispirato: nomi tra i quali si annoverano Stephen King, George R.R. Martin, Robert McCammon e Joyce Carol Oates devono, alla loro letteratura, la forte ispirazione ricevuta da Howard Philipp Lovecraft, maestro comune che oggi è e resta immortale, tra i più amati e letti di tutti i tempi. (dalla prefazione di Antonia Depalma) (…) Basti pensare che il già citato Necronomicon, pur essendo dichia- ratamente il frutto dell'ingegno del suo autore, si è trasformato in un vero e proprio grimorio contenente oscuri segreti e indecifrabili misteri per moltissimi studiosi, tanto che in diverse occasioni sono nate leggende direttamente collegate ad esso. (dalla post fazione di Mario Contino)" Dichiara l’autore Stefano Donno: “Ho l’esigenza (mi rivolgo ai potenziali lettori di questo scritto, questa piccola guida) di condividere con voi un pensiero inquietante che mi ha travolto mentre scrivevo questa monografia su H.P. Lovecraft. Mentre mi immergevo nelle profonde e oscure pieghe della mente di questo genio del terrore, mi sono reso conto che la mia interpretazione potrebbe essere solo una delle tante varianti di infinite versioni provenienti da multiversi che pullulano di abominii e orrori dominanti. Lovecraft è noto per i suoi racconti di antichi dei primordiali, dimensioni oscure e creature sovraumane che superano di gran lunga la comprensione umana. Eppure, dopo mesi di studio, ho sempre più presente in me stesso la convinzione che ogni cosa qui riportata, potrebbe essere solo un tenue barbaglio nella vastità delle possibilità narrative lovecraftiane. Il mio cuore trema all'idea che esistano mondi in cui la depravazione e l'orrore regnano sovrani, in cui ciò che noi consideriamo normale è devastato e sovvertito, e dove la paura diventa la sola costante di ogni cosa che esiste. Potrebbe esserci un universo in cui le storie di Lovecraft sono state superate, in cui gli orrori descritti nei suoi racconti sembrano tenere narrazioni rispetto agli orrori che altre realtà offrono nell’oscurità. Questa piccola monografia che ho scritto si basa sulla lettura di racconti e analisi delle tematiche ricorrenti nella narrativa lovecraftiana. Ma che cosa potrebbe significare tutto ciò se ogni ricerca, ogni spiegazione e ogni interpretazione fosse solo un ulteriore apertura verso nuovi abissi di paura? Mentre concedete dunque la vostra attenzione alle parole che ho scritto, tenete a mente che queste parole potrebbero essere solo irrisorie rispetto alla vastità di un orrore cosmico e abominevole. Ciò che troverete in queste pagine potrebbe sembrare terribilmente familiare, oppure potrebbe essere solo l'inizio di un viaggio sinistro nelle varianti più estreme della follia. E con questa consapevolezza, vi invito a guardare ben oltre le pagine dei miei scritti, e fare in modo che ogni traccia di normalità svanisca nel buio. Solo allora, potrete sperare di catturare un fugace sguardo di ciò che si cela al di là dei confini del nostro universo. A volte mi assale il dubbio che quanto da me scritto sia in realtà la voce di qualcos’altro”. Howard Phillips Lovecraft, meglio conosciuto come H.P. Lovecraft, è uno degli scrittori più influenti e controversi del ventesimo secolo. Nato nel 1890 a Providence, Rhode Island, Lovecraft ha creato un'impressionante e unica mitologia letteraria che ha continuato ad affascinare e spaventare i lettori di tutto il mondo. Uomo dalla vita sociale limitata, ha preferito l'isolamento e la lettura, che alimentarono ulteriormente la sua immaginazione oscura. La sua scrittura era caratterizzata da un linguaggio ricercato, una prosa elaborata e un utilizzo di descrizioni dettagliate, rimanendo fedele allo stile gotico vittoriano. Le sue storie si concentravano sul tema dell'orrore cosmico, in cui i protagonisti si scontrano con forze soverchianti di creature ancestrali e degli dèi antichi che minacciano l'esistenza umana. L'opera più celebre di Lovecraft è probabilmente il "Mito di Cthulhu". Questo ciclo di racconti si basa su una mitologia inventata da Lovecraft, in cui antichi dei primordiali, come Cthulhu, dormono nelle profondità abissali del mare e nei recessi dello spazio, pronti a risvegliarsi per reclamare il dominio sulla Terra. Lovecraft è stato trascurato dalla critica mentre era in vita, ma dopo la sua morte nel 1937, il suo lavoro ha conosciuto un revival significativo. Scrittori come Stephen King, Neil Gaiman e Guillermo del Toro hanno dichiarato pubblicamente l'influenza di Lovecraft nelle loro opere. Il suo stile unico e la sua capacità di far emergere paure innominate lo rendono un maestro dell'horror. Il Nostro ha inoltre ispirato numerose opere in altri media, come film, videogiochi e musica. Gli adattamenti cinematografici dei suoi racconti, come "Re-Animator" e "Dagon", hanno continuato a creare nuovi fan dell'orrore lovecraftiano. Nonostante la sua vita oscura e la morte prematura, H.P. Lovecraft ha lasciato un'impronta indelebile nel panorama letterario dell'horror.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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lo "stabat mater" di pergolesi, oggi a roma
lo “stabat mater” di pergolesi, oggi a roma
CONCERTI DEL FESTIVAL DI PASQUA 2022 OGGI, martedì 12 aprile 2022 – Alle ore 20:00 Giovanni Battista Pergolesi STABAT MATER Soprano: Sarah Agostinelli Contralto: Chiara Chialli Orchestra da Camera del Festival di Pasqua Direttore: Stefano Sovrani Basilica di San Crisogono Viale Trastevere (piazza Sonnino 44) – Roma Ingresso libero fino ad esaurimento posti Infoline: +39 06 64829220 * (more…)
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#Basilica di San Crisogono#Chiara Chialli#concerto#Giovanni Battista Pergolesi#music#musica#Orchestra da Camera del Festival di Pasqua#Pergolesi#piazza Sonnino#San Crisogono#Sarah Agostinelli#Stefano Sovrani#Trastevere
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Paolo Pasi, autore del libro “Ho ucciso un principio. Vita e morte di Gaetano Bresci, l’anarchico che sparò al re“, edito da Eleuthera.
L’intervista (29 Luglio 2020) di Alessandro Braga a Prisma.
Gaetano Bresci era un personaggio chiave dei suoi tempi, un operaio tessile specializzato che aveva consolidato la sua formazione politica a Prato. Specchio delle forti disuguaglianze sociali dell’Italia di fine ‘800 e costretto, dopo aver lavorato nei fabbriconi di Prato ed aver lasciato anche tracce del suo passaggio nei registri sopravvissuti a un incendio, a conoscere tutto il lato disumano del lavoro nelle fabbriche tessili, che impiega molto il lavoro femminile e dei minori. Donne e ragazzi che vivono nel costante frastuono della fabbrica, di questa voce che in qualche modo strappa le persone alla loro vita. Gaetano Bresci ad un certo punto decide di emigrare negli Stati Uniti e si stabilì a Paterson, nel New Jersey, dove c’era una folta comunità, non solo di italiani, ma di anarchici. Erano circa un migliaio, quella era la tiratura dei giornali anarchici di Paterson. Arriva negli Stati Uniti con una solida formazione da autodidatta, come nelle biografie di tanti anarchici, e lì riesce anche a costruirsi un suo nucleo familiare conoscendo una operaia tessile di origine irlandese ed avendo con lei una figlia. Cosa colpisce della vicenda umana di Bresci, che decide di tornare in Italia quando era ancora molto giovane? Colpisce il fatto di non aver mai reciso un legame con l’Italia, come tanti altri anarchici, e di aver scelto di emigrare come una sorta di esilio per l’insostenibilità delle condizioni sociali in Italia in quel periodo. Ma gli anarchici italiani guardano sempre alla penisola e ai suoi drammatici accadimenti. Uno di questi, a parte i moti repressi in Lunigiana, sono le cannonate di Bava Beccaris sulla folla disarmata a Milano nel maggio 1898. Questo fatto colpisce molto anche Bresci. Il responsabile morale viene ritenuto Umberto I, perché Bava Beccaris verrà insignito dal Re di una medaglia per alti meriti verso la civiltà. Da questo momento, anche attraverso un carteggio che è custodito nel Museo Criminologo di Roma, si capisce che Bresci inizia a pianificare il suo ritorno in Italia con almeno un anno di anticipo per vendicare i morti dei Moti di Milano.
Nel libro, che ha una struttura quasi narrativa, si segue la partenza in piroscafo, lo sbarco in Europa e la permanenza di qualche giorno a Parigi e il ritorno in Italia, prima dai suoi parenti a Prato e poi a Milano tre giorni prima di colpire, il 29 luglio 1900, quando sul campo di una società sportiva di Monza, Bresci decide di sparare quattro colpi di pistola a Re Umberto I, tre dei quali vanno a segno. Nell’immediato, sottratto al linciaggio, nell’interrogatorio pronuncia la frase “non ho inteso uccidere una persona, ma ho inteso uccidere un principio, quello di autorità“.
Quella frase rende Gaetano Bresci un’icona ancora più forte.
Sicuramente Bresci diventa un simbolo, suo malgrado mi verrebbe da dire. Con questo gesto consegna totalmente la sua vita e la recide. Da quel momento in poi, dall’arresto, Bresci non vedrà più nessuno. Verrà tenuto in isolamento per mesi fino ad arrivare alla morte nel carcere sull’isola di Santo Stefano. Certamente il simbolo deriva dell’eco incredibile che ebbe questo gesto, perché il Re era ancora ammantato di un’aura sacrale. I commenti dei giornali furono ferocissimi. L’idea che qualcuno avesse ucciso un Re portò le colonne del Corriere Della Sera ad invocare il linciaggio per Bresci, la folla avrebbe dovuto farli a brami. Fu un gesto così eclatante che ne parlò anche Tolstoj che, in un saggio intitolato “Non uccidere”, scriveva: “ma voi vi indignate per uno che ha ammazzato un sovrano quando ci sono sovrani che mandano a morire migliaia di persone?“. Ecco cosa ha fatto diventare Gaetano Bresci un simbolo: l’essersi assunto la piena responsabilità del suo gesto che, in qualche modo, segnò l’apice di quella che potremo definire la propaganda del gesto del singolo. L’inizio del secolo ci porta gradualmente a consolidare più i passaggi organizzativi ed accantonare questo tipo di azioni singole.
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#AccaddeOggi, 13 luglio 1878, il trattato di Berlino fu firmato dall'Impero Ottomano e dalle altre grandi potenze europee, tra cui Regno Unito, Austria-Ungheria, Francia, Germania, Regno d'Italia e Russia.
Il trattato ha ridotto gravemente i beni territoriali dell'Impero Ottomano nei Balcani. Il trattato riconosceva anche l'indipendenza dei principi sovrani di Romania, Serbia e Montenegro.
Durante la guerra serbo-turca del 1876-1878, la Russia minacciò gli ottomani di firmare una tregua con i serbi per fermare la guerra. La prima guerra serbo-turca fu vinta dagli ottomani ma con il sostegno russo alla Serbia, gli ottomani persero la seconda guerra e il trattato di San Stefano (3 marzo 1878) fu imposto agli ottomani dalla Russia.
Dal 13 giugno al 13 luglio 1878 si convocano a Berlino i rappresentanti delle maggiori potenze europee per rinegoziare il Trattato di San Stefano. Il Congresso ha cercato di risolvere non solo la guerra russo-turca, ma anche i molti conflitti nei Balcani.
Secondo i termini del Trattato di Berlino, gli Ottomani hanno perso due quinti del territorio dell'impero e un quinto della sua popolazione nei Balcani e nell'Anatolia orientale. Tra i territori arresi vi erano tre province nella regione del Caucaso, nell'Anatolia orientale: Kars, Ardahan e Batum.
Gli ottomani hanno perso altri territori a favore delle potenze europee oltre a quelli arresi nel Trattato di Berlino. La Gran Bretagna prese Cipro come colonia nel 1878, la Francia occupò la Tunisia nel 1881, e dopo essere intervenuta nella crisi egiziana del 1882, la Gran Bretagna pose quella provincia autonoma ottomana sotto il dominio coloniale britannico.
Queste perdite hanno convinto il sultano Abdülhamid II che doveva governare l'Impero Ottomano con mano forte per proteggerlo da ulteriori smembramenti da parte di ambiziose potenze europee. A suo merito, tra il 1882 e il 1908 Abdülhamid protesse i domini ottomani da ulteriori smembramenti.
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🏛 Seconda giornata di Rolli Days 😎☀️ eccoci a Villa del Principe o Palazzo di Andrea Doria una delle principali ville storiche di Genova, al tempo della sua costruzione, si trovava fuori delle mura della città e dunque non fu censita come “Rollo” della Repubblica di Genova. Costruita come residenza strettamente privata per il principe Andrea Doria negli anni ospitò sovrani e diplomatici di ogni nazione Ancora di proprietà degli eredi Doria Pamphilj, oggi la villa è un museo aperto al pubblico. 📷: © Stefano Bucciero #doriapamphilj #genovamorethanthis #genova #palazzodelprincipe #art #photography #genovagram #ig_genova #liguria #architecture #ig_liguria #liguriagram #igersgenova #doriapamphiljgallery #italy #igersliguria #lamialiguria #villapamphili #villa #arte #palazzodelprincipegenova #Palazzodelprincipe #visitgenova #palazzideirolli #rollidays #italia #ilsecoloxix #vivogenova #genova_photogroup #liguria_photogroup (presso Villa del Principe) https://www.instagram.com/p/CUzbw8kIFYP/?utm_medium=tumblr
#doriapamphilj#genovamorethanthis#genova#palazzodelprincipe#art#photography#genovagram#ig_genova#liguria#architecture#ig_liguria#liguriagram#igersgenova#doriapamphiljgallery#italy#igersliguria#lamialiguria#villapamphili#villa#arte#palazzodelprincipegenova#visitgenova#palazzideirolli#rollidays#italia#ilsecoloxix#vivogenova#genova_photogroup#liguria_photogroup
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Coronavirus, le scene alla stazione di Milano sono l’esempio perfetto dell’egoismo italiano di Stefano Manganini “L’Italia è fatta, ora dobbiamo fare gli affari nostri”, disse Gaspare nel superbo I Viceré di De Roberto del 1894. Tristemente, a distanza di più di un secolo, nulla sembra essere cambiato. In un paese in cui il 40% dei votanti sostiene partiti che hanno fatto dell’amor di patria un perno della loro retorica, mai nessuno si sarebbe aspettato di dover assistere alle surreali scene di qualche sera fa alla stazione di Milano. Superfluo ormai spiegare i motivi di tale fuga e il pericolo che questa rappresenta, ma è vitale prendere coscienza di quanto sia perfetta rappresentazione della miseria umana in cui l’Italia si è ridotta. O forse da cui non è mai uscita, viste le parole di De Roberto. In un paese in cui esponenti politici di spicco fanno propaganda speculando sull’emergenza, pare che ormai rispetto e responsabilità siano solo atteggiamenti da saputelli boriosi, vittime sacrificali deposte all’altare della misera ambizione personale. L’amor di patria diviene strumento politico solo ai fini di combattere un presunto nemico diverso da noi, al netto della sua effettiva esistenza, mentre per noi la patria rimane solo un concetto vetusto estrapolato dalla sceneggiatura di qualche film di guerra americano. Le fughe improvvisate di quella sera, contrarie a qualsiasi indicazione degli enti sovrani del paese che diciamo di amare, non è altro che un triste rimando all’iconica scena dei topi che fuggono dalla nave che affonda. Badate bene che non si tratta di una semplice fuga dal coronavirus, bensì di una fuga dal proprio dovere morale di cittadino. È un estremo atto di egoismo da parte di chi è disposto a mettere in ginocchio l’intera Italia piuttosto che accettare di buon grado un temporaneo confino precauzionale. È l’apoteosi dell’individualismo e della pochezza morale di chi, italiano, si sente solo quando c’è da sentirsi superiori a chi italiano non lo è. È un soldato che rompendo le righe non solo abbandona i suoi compagni alla mercé del nemico, ma anzi condanna alla rovina il paese per cui combatte. ...Un giorno quest’epidemia finirà e tutto tornerà come prima, ma ancora una volta avremo perso l’opportunità di dimostrare a noi stessi che non siamo un popolo di vigliacchi e traditori. Ancora una volta siamo riusciti a dimostrare che governare gli italiani non è difficile, ma semplicemente inutile.
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2 APR 2020 13:39CHE TESORINI 'STI TEDESCHI: DA UNA PARTE CI ''PRESTANO'' 30 POSTI IN TERAPIA INTENSIVA, DAL VALORE DI QUALCHE MIGLIAIO DI EURO. DALL'ALTRA ANNUNCIANO, A CAUSA DEL CORONAVIRUS, IL DECLASSAMENTO A SPAZZATURA DEI NOSTRI TITOLI DI STATO, INFLIGGENDO UN DANNO POTENZIALMENTE MILIARDARIO ALLA NOSTRA ECONOMIA - COMMERZBANK (SECONDA BANCA TEDESCA, CONTROLLATA DAL GOVERNO, UNA BANCA CHE STA PURE MESSA MALE) RITIENE CHE I NOSTRI BTP DIVENTERANNO INEVITABILMENTE ''JUNK'' E SE NE SBATTE DEGLI ACQUISTI BCE
COMMERZBANK 6
La perdita dell’investment grade da parte dell’Italia è “quasi inevitabile” in quanto le misure per contrastare gli effetti del coronavirus “peggioreranno” i conti pubblici. Lo scrivono gli analisti di Commerzbank, secondo quanto riporta Bloomberg, suggerendo ai clienti di chiudere le posizioni lunghe, cioè vendere, i Btp. Per Commerzbank il rapporto debito-pil sfiorerà il 150% nel 2020 per scendere al 145% nel 2022 grazie al rimbalzo del Pil “ma questo potrebbe non bastare a prevenire un downgrade a junk”, si legge nella nota di Michael Leister, responsabile Strategia tassi della seconda banca tedesca.
GIUSEPPE CONTE ANGELA MERKEL
Dura la reazione del governo. “In piena emergenza coronavirus, in piena pandemia mondiale, mentre l’Italia piange oltre 10.000 morti, la Germania non solo fa muro da settimane sugli aiuti all’Italia, ma ora secondo l’autorevole agenzia internazionale Bloomberg ci attacca anche direttamente invitando a vendere i Titoli di Stato italiani tramite la seconda banca di Germania, la Commerzbank, posseduta al 15% proprio dallo Stato tedesco… Questa notizia può provocare danni economici giganteschi, il governo tedesco intervenga subito per bloccare questa follia”, ha scritto su Facebook il viceministro dello Sviluppo economico, Stefano Buffagni (M5S), che aggiunge: “L’Europa e gli stati europei devono essere solidali. Tutti e con tutti. Nessuno si salva da solo. Non è questa l’Europa che ci meritiamo!”.
COMMERZBANK 7
Commerzbank ha una esposizione per circa 9,5 miliardi di euro sui titoli sovrani italiani.
Scrive il Sole 24 Ore oggi: “I report per i clienti, soprattutto quelli più facoltosi, sono un fatto usuale, e spesso le previsioni si spingono parecchio avanti. Ma quando c’è di mezzo la Germania, specie in un momento delicato sia sul fronte mercati (lo spread) che su quello politico (il negoziato sulle misure comuni a sostegno dei conti pubblici dei paesi Ue) le cose si complicano facilmente. Anche perché in una nota – e spesso il diavolo si annida nei dettagli – l’analista, che fa di nome Michael Leister, scrive che con l’Italia l’incubo dell’euro potrebbe diventare realtà”.
STEFANO BUFFAGNI
Conclusione: “Fa effetto vedere scritta la parola “junk”, come se fosse un gioco di società, visto che si parla di Italia, e di una fenomeno che investe tutta l’Europa con tempistiche diverse, e che viene misurato con metodologie diverse, giusto per rimanere sulla Germania“.
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alcune cose, un po' a caso
In questi giorni non ho scritto, eppure avrei dovuto. Volevo consegnare alcune cose nuove, volevo prendermi cura di un paio di cose che sto scrivendo in questi mesi, volevo mandare un po' di righe per il disco nuovo. Invece ho fatto solo delle gran email, ma proprio delle gran email. E ho guardato la prima puntata di Sanremo, perché mi piaceva prima e mi piace anche ora. Poi stasera esco e aspetto che vinca chi piace di più al pubblico. Che è sovrano anche se ci sta sui coglioni. Al posto di scrivere ho traslocato da Bologna a Roma, era nell'aria da un po' e finalmente ci hanno consegnato casa, poi i mobili, poi ho montato i lampadari con Stefano e alla fine mi sono seduto sul divano a non scrivere. Ma scrivere delle gran email. Se mi pagassero per scrivere delle gran email sarei ricco, anche con 2€ a email sarei ricco. Sono così nel trip delle email che queste righe le sto appuntando nel box del nuovo messaggio di GMail. Che secondo me è un nuovo formato, come il vocale di whatsapp è un nuovo standard audio. Sono sovrani, Gmail e Whatsapp, con i loro standard anche se ci stanno sui coglioni. In questi giorni invece di scrivere delle cose esagerate e bellissime ho scritto delle gran email, ma ho anche pensato parecchio. Soprattutto dopo una telefonata di Arianna che -giustamente molto adirata- diceva che sta cosa di Lino Banfi è davvero lo specchio di un paese del cazzo. Ha fatto un monologo rabbioso per cinque minuti a cui io, che sono un privilegiato per quanto sia un rompicoglioni, non mi sono sentito di ribattere. Le ho detto che aveva ragione, che anche io un po' di maroni per terra ce li ho e che se volesse andarsene altrove fuori dall'Italia io la seguirò. Tanto a far scatoloni e spostare libri ho una certa abitudine.Non ci avevo mai pensato davvero in questi anni, però queste settimane di ignavia letteraria ma di gran email mi hanno dato la possibilità di tararmi su un ritmo di vita che mi fa sentire, più del solito, il peso di sto paese di merda. Tanto poi fuori è più o meno uguale quindi cosa ci vai a fare, stanno tutti con l'acqua alla gola e alla peggio diventi tu la minoranza su cui si rifaranno. Però uno che manda delle gran email fa sempre comodo, forse più di uno che scrive i libri o le canzoni. Non lo so. Mi amareggio di questi pensieri e penso che tutti questi anni di lotte, gesti, azioni, parole poi alla fine mi abbiano fatto sedere sul divano convinto che più scrivevo le mie cose esagerate più avrei risolto dei problemi. Invece un cazzo, ho risolto qualcosa mandando delle gran email, che se non fossero riservate sarebbero da farci un'installazione. Ci sono rimasto male e penso che non sia un bel inverno, anche se nella mia vita personale va tutto bene e qui a Roma sono due giorni di quasi primavera. Ho passato un po' di tempo su Twitter due giorni fa, a leggermi Salvini, Di Maio, Conte, quella merda lì insomma. Mi sono dispiaciuto due volte, perché Di Maio è un mio coetaneo e uno pensa sempre che i propri coetanei siano dei draghi e invece è un barbaro, un ignorantone nel senso che non sa proprio le cose e mi dispiace fare il solito discorso classista ma a me uno con così poca conoscenza del mondo lì a capo di mezzo parlamento mi fa venire un'angoscia fuori misura. Poi mi sono dispiaciuto di più leggendo cosa scrive Salvini, che è quel genere di persona che te le leverebbe dalle mani se lo avessi davanti ma è anche quel genere di persona che se gli meni lo fai santo. Infatti spero lo rapiscano gli alieni, si strozzi con la noce moscata o diventi muto. Con affetto verso gli amici sordomuti, che non hanno colpe ma quando uno pensa a cose brutte poi si imbruttisce. Così non ho scritto un accidente di esagerato, mi sono dispiaciuto e mi sono anche un po' buttato giù perché mi hanno fatto un dispetto brutto alla macchina. Qua vicino abita la Isoardi, prima ci veniva pure Salvini a mangiare dove mi capita di andare a mangiare ogni tanto. Secondo me è stato lui.
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[Taddeo in rivolta][Stefano Amato]
Taddeo in rivolta di Stefano Amato è un romanzo di crescente, inesorabile tensione che indaga il campo minato dei gesti senza ritorno, e insieme l’esile confine che separa il giusto dall’ingiusto.
È grasso, introverso, il suo autore preferito è Camus: a Cirasa Taddeo si sente solo contro tutti, perché ignoranza, prepotenza e sciatteria regnano sovrani. A trentadue anni, è quasi tentato di farla finita. Una sera, mentre cena in una piazza con la madre poliziotta, assiste all’ennesima scena di violenza. Un energumeno prende a pugni in faccia un ragazzino inerme, colpevole, ai suoi occhi, di…
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#2022#fiction#Italia#LGBT#LGBTQ#Marcos y Marcos#Narrativa#narrativa italiana#Stefano Amato#Taddeo in rivolta
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Maria Antonietta
Maria Antonietta
Carlo VI d'Asburgo
La famiglia di Maria Teresa d'Austria
Francesco Stefano di Lorena e Maria Teresa d'Austria.
Mappamondo del settecento
Maria Antonietta
Monta all'amazzone
Castello si Schönbrunn
Vienna. Austria
Maria Teresa, imperatrice d'Austria, stava pazientemente seduta mentre il dentista di corte le sondava le tenere gengive, cercando il dente guasto che l'aveva fatta soffrire in quegli ultimi giorni.
Le doglie di quel pomeriggio erano cominciate presto, e all'imperatrice era venuto in mente che, finché durava il travaglio, tanto valeva che si sottoponesse nello stesso tempo alla sofferenza di farsi estrarre il dente. Perciò rimase in stoico silenzio mentre il dentista portava a termine il suo esame, afferrava il dente dolente con i suoi crudeli strumenti e, con un'esperta rotazione del polso, lo estraeva.
Maria Teresa era una donna di efficienza esemplare, appena si fu ripresa dallo shock dell'estrazione del dente, e con la bocca ancora piena di batuffoli di stoffa per tamponare il sangue, chiese le sue carte di stato e nelle diverse ore che seguirono rimase seduta a leggere e firmare documenti ufficiali, stringendosi l'addome di tanto in tanto, quando gli spasmi si facevano acuti.
Mentre erano in corso le doglie, conversò con i suoi ministri e col marito Francesco e presiedette un'importante conferenza prima di ritirarsi finalmente nella camera del parto e mettere al mondo il quarto figlio di sesso maschie, Ferdinando.
A trentasette anni Maria Teresa regnava già da quattordici sull'Austria, l'Ungheria e una congenie di principati più piccoli. Aveva ereditato questo impero-mosaico da suo padre l'imperatore Carlo VI, che era sceso nella tomba con l'angoscia di non avere un figlio maschio al quale lasciare i suoi domini. Non aveva saputo rendersi conto delle notevolissime doti della sua primogenita Maria Teresa. Ma la giovane imperatrice non aveva ancora regnato a lungo e già gli altri sovrani europei si erano resi conto della sua intelligenza e delle sue capacità uniche nonché, soprattutto, della sua indomabile energia e della sua forza di volontà. Già nei primissimi anni di regno Maria Teresa seppe opporsi ai ripetuti tentativi d'nvasione degli eserciti di Prussia, Francia e Baviera e dette prova di saper ricuorare i suoi soldati cavalcando alla loro testa con vigore e baldanza, facendo appello nello stesso tempo al loro pirito cavalleresco e al loro orgoglio di uomini. Non sempre i suoi eserciti, vinsero sul campo di battaglia - spesso prevalsero le forze del suo implacabile nemico Federico, re di Prussia - ma la sua determinazione non venne mai meno, neanche in caso di sconfitta. Ora, nel novembre del 1755, un decennio e mezzo dopo la morte di suo padre, regnava su un impero di pace, le cui entrate erano grandemente aumentate e i cui eserciti erano temprati dalle guerre e pronti a tornare a combattere, quando fossero stati chiamati a farlo, per la loro imperatrice.
L'ambasciatore di Prussia, era impressionato dalla fibra morale e dalla capacità di ripresa emotiva dell'imperatrice. Benché afflitto e sotto la pressione di guerre continue, Maria Teresa non aveva mai l'aspetto stanco e non era irritabile. <<La sua espressione è fresca>>, scriveva il diplomatico prussiano <<e la sua carnagione molto chiara benché lei le dedichi scarsissime cure. Il suo sostegno è brioso e gaio, e il suo modo di accogliere gli ospiti sempre caloroso e piacevole; inutile negarlo, Maria Teresa è una donna quanto mai incantevole e deliziosa.>>
Si dava un gran da fare per curare il suo aspetto, dedicando le prime ore della sua lunga giornata (abitualmente si alzava all'alba) all'abbigliamento e ad operazioni complicate come l'arricciatura e l'incipriatura dei capelli. A corte, certi osservatori maligni dicevano che si sottoponeva a queste fatiche nell'inutile tentativo di conservare la fedeltà del marito, ma questo poteva essere solamente una parte del motivo. Il suo aspetto attraente era per lei un punto a favore, e Maria Teresa lo sapeva; usava la propria femminilità, come avevano fatto le grandi regine del passato, per suscitare gli istinti protettivi dei sudditi e conquistare i loro cuori oltre che il loro rispetto. Quanto alla fedeltà del marito, su questo delicato problema Maria Teresa era realista. Non ignorava che Francesco avesse delle amanti, ne soffriva in conseguenza ma sapeva superare l'angoscia. Suo marito non era tanto lascivo quanto indolente e amante dei piaceri, si diceva. Era affezinato a lei e ai loro figli. Dio l'aveva benedetta con un buon matrimonio e questo matrimonio essa non l'avrebbe guastato con le recriminazioni. Come una volta aveva consigliato a un'altra donna, il cui marito le aveva dato motivo di lagnarsi: <<Evitate i rimproveri, le lunghe spiegazioni e, soprattutto, le dispute>>.
Comunque vestisse, camminava sempre come l'imperatrice. Teneva in esercizio i muscoli delle gambe con benefiche escursioni campestri di quattro ore: l'aria fresca e corroborante della campagna le dava vigore e le sgombrava la mente dalle costanti preoccupazioni. A tale scopo, anzi, scoprì che cavalcare era ancor meglio che camminare. Amava cavalcare velocemente e spericolatamente, come un uomo, e rifiutava di adottare la sella all'amazzone salvo quando era costretta a farlo negli ultimi mesi di gravidanza. Vagabondava a cavallo fino alle più sperdute taverne di campagna, oppure andava a galoppare nel Pater o nell'enorme scuola d'equitazione recintata, ove essa e le sue dame partecipavano al finto torneo chiamato carosello. Con i calzoni di camoscio alla zuava e gli stivali alla scudiera coperti da una lunga gonna, l'imperatrice non era mai più felice di quando galoppava a rompicollo. A volte, dopo aver danzato tutta la serata, andava alla scuola d'equitazione e prendeva parte a un carosello che durava per tutta la notte. Via via che invecchiava si abbandonò a questi sfoghi di energia meno frequentemente, ma anche allora le rimase la voglia di cavalcare e spesso. Quando non montava in sella, guidava una carrozza a fortissima velocità e i soldati della sua guardia a cavallo che le facevano da scorta dovevano fare il possibile per tenere il passo.
L'imperatore Francesco, nella cappella degli Agostiniani, stava cantando un salmo quando fu avvertito che sua moglie era nella fase finale delle doglie. Tornò immediatamente a palazzo: la sua prima preoccupazione era che il figlio quattordicenne Giuseppe, erede al trono, non <<vedesse o udisse niente di improprio o di non confacente alla sua età>>. Giuseppe fu tenuto alla larga, insieme con gli altri undici figli della famiglia imperiale, fino a quando dalla camera della partoriente non arrivò la notizia. Questo avvenne presto, poco prima delle otto. L'imperatrice aveva dato alla luce un'altra femmina; la bambina era molto piccola e delicata, ma evidentemente sana, e sarebbe stata chiamata Maria Antonia Giuseppina Giovanna.
Benché più piccola del normale, l'ultimogenita cresceva bene. Con le sopraccigli larghe, gli occhi grandi e molto spaziati e le labbra arcuate, somigliava al padre, gli occhi, però, avevano il colore di quelli materni, di quella particolare sfumatura chiamata azzurro imperale, un ceruleo chiaro e puro. Antonia - sempre chiamata Antoinette nella corte austriaca, ove la lingua in uso era il francese - era una ragazzina abbastanza graziosa, ma soltanto una ragazzina, un'altra arciduchessa in una famiglia che già aveva sette arciduchesse e soltanto quattro arciduchi. L'arrivo di un'altra arciduchessa non richiese festeggiamenti elaborati. Non ci fu un grande banchetto pubblico, com'era d'abitudine per la nascita d'un figlio dell'imperatrice; furono invece indetti due giorni di celebrazione ufficiale, con la corte in tenuta di gala e l'offerta di speciali divertimenti ai cittadini di Vienna. Dopo di che la componente ultima arrivata della famiglia scomparve nei recessi delle stanze dei bambini; certamente le sarebbe succeduto, i cortigiani ne erano sicuri, un altro figlio.
I figli e le figlie di Maria Teresa e di Francesco di Lorena si vedevano spesso ai concerti, alle recite teatrali e agli altri avvenimenti di corte, seduti vicino ai genitori e disposti a scala in odine di sesso e di età: prima i maschi, poi le femmine. Erano vestiti come adulti in miniatura, i ragazzi in giacche di velluto, calzoni alla cavallerizza e calze di seta bianca fino al ginocchio, le ragazze in abiti di seta a scollatura quadrata con il corpetto attillatissimo e la gonna arricciata, sostenuta da una rigida crinolina di stecche di balena. Assai frequentemente sul palcoscenico si vedevano gli stessi ragazzi della nidiata imperiale che, abbigliati con costumi esotici, si esibivano in balletti, opere e commedie. Certi osservatori ritenevano che i giovanissimi arciduchi dedicassero una quantità esagerata del loro tempo alla preparazione di simili spettacoli e si domandavano se fossero invece adeguatamente preparati per le serie responsabilità della vita da adulti. Ma le loro frequenti esibizioni erano la delizia dei genitori, e Maria Teresa in particolare incoraggiava i ragazzi a preparare svaghi serali per il padre.
Nessuno dei figli di Maria Teresa si elevava al di sopra di un'abilità da dilettante nel canto e nell'uso degli strumenti, ma tutti si trovavano a loro agio con la musica: Vienna era diventata la capitale musicale d'Europa Glück e Haydn componevano per la corte e l'aristocrazia imperiale, il fanciullo prodigio Mozart andava a suonare a Schönbrunn per l'imperatrice e la sua famiglia. L'imperatrice stessa aveva una voce straordinariamente adatta al canto e cantava infatti piuttosto bene, anche se il suo gusto musicale non era sofisticato. Quando si trattava di scegliere fra e opere essa preferiva invariabilmente ciò che era piacevole e convenzionale a ciò che era profondo e apriva nuove vie. Provvide comunque a dare ai figli una cultura musicale estesa. Non solo essi suonavano ciascuno uno strumento - Antonietta suonava l'arpa - ma formavano gruppi: trii, quartetti e, una volta, una piccola orchestra.
Si insegnava loro a scrivere, a leggere, a cavarsela un pò col francese: si e no un'ora o due alla settimana erano dedicate allo studio delle carte geografiche e alla lettura di testi narrativi. Alcuni sacerdoti impartivano loro lezioni di morale e di religione. Le femmine imparavano a lavorare d'ago e i maschi si esercitavano nella scherma. Ma, specie per le ragazze, si trattava di lezioni superficiali. Fin da molto piccoli gli arciduchi e le arciduchesse furono affidati alle cure della contessa von Brandeiss, una governante fin troppo incline all'indulgenza, per non dire di più, dalla quale appresero ben poco in materia di autodisciplina e di applicazione mentale. Inoltre, a Maria Teresa, stava più a cuore che i suoi figli imparassero le buone maniere e un corretto comportamento a tavola, e a coltivare il coraggio e la fiducia in se stessi, che ad apprendere le discipline formali. L'imperatrice insisteva sulla necessità che i rampolli imperiali imparassero a essere cortesi con tutti, anche con i domestici, e in particolare con gli estranei. Non dovevano mostrarsi né altezzosi né esageratamente confidenziali bensì mantenere un giusto mezzo fra questi due estremi, una grazia dignitosa e distaccata che facesse onore al loro lignaggio senza arrecare offesa ad alcuno.
Maria Teresa, per necessità delegava i compiti dell'allevamento e dell'educazione dei figli ad altre persone, facendo affidamento sul medico di corte, Gerhard von Swieten, per la loro salute fisica e su un gruppo di precettori imperiali per la loro istruzione. Durante i mesi invernali, quando la corte era nella Hofburg, trascorreva con i figli quanto più tempo possibile fra una riunione e l'altra con i funzionari e fra una seduta e l'altra per l'esame dei documenti. Invece nella stagione calda quando la corte si trasferiva a Schönbrunn, qui la seguivano soltanto i figli maggiori; i più piccoli restavano a Vienna e vedevano la madre molto meno spesso. Da adulta, Antonietta ricordava che sua madre era tanto occupata nelle questioni di stato che a colte vedeva i figli solo ogni otto o dieci giorni.
Intorno alla metà del XVIII secolo due colossi dominavano il continente europeo: l'Austria degli Asburgo e la Francia dei Borbone. I domini dell'Austria comprendevano gran parte dell'Europa centrale, partì dall'Italia e i Pesi Bassi austriaci (il Belgio attuale). I vasti e opulenti territori sottoposti al dominio dei re borbonici comprendevano non soltanto una Francia congestionata, i cui confini erano stati ampliati fino a comprenderne la Lorena, ma anche la Spagna, l'Italia meridionale continentale e la Sicilia. La Francia sperava anche di conquistare la Gran Bretagna.
Senza interruzione, dal XVI secolo in poi, due giganti del continente erano arrivati ai ferr corti. Battaglia dopo battaglia, regno dopo regno la rivalità era continuata immutaata, anche se il sopravvento passava più volte dall'una all'altra parte. Verso la metà del '700, Verso la metà del '700, la secolare inimicizia fra i Borbone e gli Asburgo aveva cominciato ad attenuarsi. L'Inghilterra, stava diventando la principale rivale della Francia, perché sia gli inglesi sia i francesi erano entrati in possesso di ricchissimi imperi mondiali, che alimentavano sempre più il conflitto fra le due potenze europee. L'Austria, era giunta a nutrire timore e diffidenza più per la potenza aggressiva della Prussia che nei confronti della tradizionalmente nemica Francia. Federico re di Prussia, aveva già mostrato i denti conquistando la Slesia, che era la più ricca provincia austriaca.
Maria Teresa voleva recuperare la Slesia, rendere sicuro il confine con la Prussia. Perciò, quando, la Prussia e la Gran Bretagna condussero, all'inizio del 1756, un'alleanza difensiva. Perciò, quando, la Prussia e la Gran Bretagna condussero, all'inizio del 1756, un'alleanza difensiva, il terreno era pronto per un riavvicinamento tra l'Austria e la Francia. Due diplomatici, il conte (in seguito principe) Kaunitz in Austria e il duca di Choiseul in Francia, si pronunciarono a favore di un'alleanza austro-francese, il maggio seguente venne concluso il trattato di Versailles, in base al quale ciascuno dei due testi firmatari prometteva di aiutare l'altro nel caso di un attacco da parte di una terza potenza.
La guerra scoppiò quando truppe prussiane, nell'agosto del 1756, fecero irruzione in Sassonia. Maria Teresa fu in grado di concentrare le sue forze per opporre resistenza al mostro, Federico. La sua prima preoccupazione era il benessere del suo esercito. Si interessava personalmente alle condizioni dei suoi soldati, provvedendo affinché fossero adeguatamente riforniti, calzati e vestiti. Instancabilmente, restava a discutere ore e ore con i suoi consiglieri per elaborare la strategia e curare la preparazione logistica delle campagne. Dopo, sola nel biancore dorato dei suoi appartamenti a Schonbrunn, rifletteva sulla tattica e affrontava le esigenze connesse al finanziamento dell'esercito; e finiva spesso col decidere di impegnare i suoi gioielli piuttosto che mandare gli uomini in battaglia male equipaggiati.
Maria Teresa dette prova di un ferreo coraggio quando i prussiani minacciarono Vienna. La città era praticamente indifesa perché l'esercito austriaco era concentrato in Boemia. I ministri sollecitarono l'imperatrice a fuggire dalla capitale. Essa non volle farlo. <<La corte rimarrà qui fino all'estremo>, proclamò.
Vienna fu risparmiata. Un generale austriaco attaccò il convoglio di carri che portava i rifornimenti prussiani, costringendo Federico a ordinarne la distruzione per evitare che il prezioso materiale cadesse in mano nemica. La perdita de rifornimenti costrinse l'esercito prussiano a ritirarsi, e la capitale austriaca non fu più in pericolo.
Una donna gagliarda, col volto arrossato, un coraggio da amazzone e un espressione di risoluta sfida: era questo il primo ricordo che Antonietta serbava di sua madre.
#Annalisa Lanci#Maria Antonietta#Maria Teresa d'Austria#storia#cultura#buio e lucen#settecento#buio e luce tra cielo e terra#tra cielo e terra
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Milano - Biblioteca Nazionale Braidense - Sala Maria Teresa - 1770
Dal 1714 Milano passa - con il Trattato di Rastadt - dagli Spagnoli agli Austriaci. Il periodo spagnolo è il periodo descritto dal Manzoni che nel 1630 aveva vissuto la peste e non aveva lasciato la città in buone condizioni.
La Milano austriaca - sotto Maria Teresa (1740 - 1770) e Giuseppe II (1780 - 1790) vive invece la crescita determinata dalle dittature illuminate dei sovrani che le lasciò la Scala, il catasto, la Cariplo, la ferrovia, l’Università e la Biblioteca Nazionale Braidense che ancora oggi è dedicata a Maria Teresa d’Austria.
L'imperatore Carlo VI preparò l’ascesa della figlia emanando nel 1713 la Prammatica Sanzione mediante la quale diseredava le figlie del fratello e nominava quale erede Maria Teresa che nel 1736 sposò Francesco Stefano di Lorena Granduca di Toscana.
Quando Carlo VI morì nel 1740, Maria Teresa dovette in ogni caso affrontare l’instabilità politica che la contrappose al suo principale antagonista Federico II di Prussia nella Guerra dei Sette anni e soffrì per la morte del marito nel 1765 che affrontrò avendo il figlio Giuseppe come co-reggente. Fra le sue figlie Maria Antonietta, moglie di Luigi XVI di Francia, e Maria Carolina, moglie di Ferdinando IV di Borbone, re di Napoli e della Sicilia.
La crescita di Milano la portò a diventare la capitale italiana dell’epoca napoleonica fino alla Restaurazione nel 1815 e all’Unità d’Italia nel 1861 dopo la conquista piemontese nel 1859 con la Seconda Guerra d’Indipendenza.
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Dolce & Gabbana Spring/Summer 2020 "DG Sicilian Jungle" Women's Fashion Show Runway, Backstage and Collections. 💗Questi due abiti corti in popeline di cotone danno il benvenuto nella giungla siciliana di Dolce & Gabbana dai mille colori e dove posti tropicali, esotici regnano sovrani💗. In particolare una foresta verdissima abitata da leopardi, zebre, elefanti, pappagalli dal piumaggio colorato e poi spettacolari fiori e farfalle. Un vero e proprio inno alla vita per la moda della Primavera Estate 2020 con la natura nelle sue varie forme, una grande sferzata di vitalità. Così il duo creativo Domenico Dolce & Stefano Gabbana ci delizia con questi due favolosi abiti dalle stampe "Jungle" più cool del momento. Accessoriateli con con sandali verdi, micro bags - grandi tendenze fashion di stagione - acconciatura con fiore e foulard e sarete perfette, super femminili e soprattutto protagoniste della tendenza jungle. Nella gallery alcune proposte per personalizzare i look. Per maggiori informazioni potete rivolgervi alle Boutiques Dolce & Gabbana. Gli abiti e gli accessori proposti nella gallery sono disponibili consultando lo store.dolcegabbana.com 🌴🌵🌾🌿🐆🦓🐘🦜🌺🌸💮🏵🌼🦋 link in bio. #DGSicilianJungle #DGFattoAMano #DGWomenSS20 #DGShoes #DGBag #DGMicroBag #DGAmoreBag #DGSicily58 #DGFoulard #DGHairstyle #DGBijoux #DGStyle #DolceGabbana #DolceGabbanaCommunity @dolcegabbana @dolcegabbana_man @dolcegabbanafamily @dolcegabbanapassion @dolcegabbana.fanpage @official_dolcegabbana @dolceegabbana___ @dolcegabbana_love @dolcegabbanaworld @dolcegabbanacz @crisvegasdg @zh.olga.5862 @joanna.dglasvegas @fdcisp7300 @dolce.qatar @dolcegabbana_bucharest @dolcegabbana.archive @lamore_e_bellezza_ #DomenicoDolce #StefanoGabbana @stefanogabbana.01 @siqueiragui #lamodaèbellezza #lamoreèbellezza https://www.instagram.com/p/CCIg4D_KM_T/?igshid=tu1ulmixgpx4
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SCHIACCIATI DALL’INFORMAZIONE
Capitalismo. «Il capitalismo offre il meglio di sé non nel risolvere i problemi, ma nel crearli» (Zygmunt Bauman).
Reddito. La differenza di reddito fra il quinto degli individui più ricchi della Terra e il quinto di quelli più poveri era, nel 1820, di 3 a 1. Nel 1913: 11 a 1. Nel 1960: 30 a 1. Nel 1990: di 60 a 1. Nel 2001: 80 a 1.
Popolazione. L’1% della popolazione mondiale possiede più del restante 99% nel suo insieme (fonte: Oxfam, 2017).
Voce. «La voce del 99% della popolazione rimane inascoltata, perché i governi mostrano di non essere in grado di combattere l’estrema disuguaglianza, continuando a fare gli interessi dell’1% più ricco: le grandi corporation e le élite più prospere» (ibidem).
Crisi. L’economista Andrea Di Stefano, studiando dati del Fondo monetario internazionale, ha contato le crisi sistemiche dal 1970 al 2007: 142 sono state di natura bancaria, 208 di natura valutaria, 63 legate ai debiti sovrani. In tutto 413 crisi in 37 anni, quasi una ogni mese.
Elettori. Secondo un sondaggio Demos pubblicato nel gennaio 2017, in Italia nel 2010 il 60% degli elettori auspicava l’idea dell’uomo forte al comando. Nel 2017: l’80%.
Razionale. «Uno degli aspetti più inquietanti della civiltà industriale: il carattere razionale della sua irrazionalità» (Herbert Marcuse).
Disoccupati. Disoccupati nel mondo: circa 200 milioni nel 2018 (fonte Ilo).
Macchine. Con l’impiego crescente delle macchine, si prevede che, nell’arco di pochi decenni, i robot svolgeranno un’attività lavorativa su due nel mondo. Più di un miliardo di lavoratori saranno sostituiti nelle loro mansioni, e verranno eliminati 15,8 miliardi di dollari in stipendi. Solo ne 5 maggiori Paesi europei (Germania, Francia, Italia, Regno Unito) a essere colpiti saranno 54 milioni di lavoratori.
Lavoro. «Io voglio dire, in tutta serietà, che la fede nella virtù del lavoro provoca grandi mali nel mondo moderno, e che la strada per la felicità e la prosperità si trova in una diminuzione del lavoro. (…) Noi abbiamo preferito far lavorare troppo molte persone lasciandone morire di fame altre. (…) In ciò siamo stati idioti, ma non c’è ragione per continuare a esserlo» (Bertrand Russell, Elogio dell’ozio, 1935).
Schiavi. «La tecnica è una nuova forma di schiavitù. Tutta l’informatica è una catena intelligente di schiavi. Siamo tutti schiavi, dei media e dei nuovi media. Schiavi, però, non come nell’antichità, ma in modo ben più raffinato: siamo schiavi pensando di essere padroni. Tante informazioni, troppe informazioni non danno il tempo di pensare» (Hans-Georg Gadamer, considerato il padre dell’ermeneutica moderna).
Transazioni. Delle migliaia di miliardi di dollari, euro ecc. che vengono movimentati ogni giorno nel mondo per via telematica, solo il 5% è finalizzato a scambi commerciali o transazioni economiche reali, come l’acquisto di derrate alimentari, materie prime, ecc. Il 95% è impiegato in speculazioni e arbitraggi, nell’immenso gioco di fluttuazioni borsistiche dei cambi e di speculazioni sui differenziali dei tassi di interesse.
Universo. «Un essere umano è parte di un tutto chiamato universo. Egli sperimenta i suoi pensieri e i suoi sentimenti come qualche cosa di separato dal resto: una specie di illusione ottica della coscienza. Questa illusione è una specie di prigione. Il nostro compito deve essere quello di liberare noi stessi da questa prigione, attraverso l’allargamento del nostro circolo di conoscenza e di comprensione, sino a includervi tutte le creature viventi e l’intera natura, nella sua bellezza» (Albert Einstein).
Verità. «Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell).
Postverità. La parola internazionale dell’anno secondo l’Oxford Dictionary: postverità. Il suo uso è aumentato del 2000% rispetto al 2015.
Narrazione. La postverità è la persuasione che a contare non sono più i fatti né la coincidenza con la realtà, ma la loro narrazione che ne prescinde.
Mario Capanna, Noi Tutti , ed. Garzanti, 2018
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Dopo Manzoni nessuno ha osato parlare dei Longobardi… Storia di Desiderio, l’ultimo re, il padre di Adelchi e di Ermengarda
Chi era Desiderio? L’ultimo re dei Longobardi è una figura ancora avvolta nel mistero; e per scoprirlo dobbiamo provare ad andare oltre le informazioni e il ritratto che ricaviamo dall’Adelchi di Alessandro Manzoni, la tragedia che ha orientato per molto tempo anche i giudizi degli storici sul regno longobardo (senza dimenticare che Manzoni all’argomento dedicò anche un saggio storico, il Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia).
La nuova biografia di Stefano Gasparri, Desiderio (Salerno Editrice, 2019), porta un sottotitolo eloquente: L’ultimo re longobardo. Si batté contro i papi e i Franchi per il dominio sull’Italia. E se in effetti, come disse Francesco Borri, autore di una recente biografia di Alboino, il sovrano – morto nel 572 – che condusse i Longobardi in Italia, la ricostruzione delle vicende esistenziali del primo re dei Longobardi occuperebbe poco più di mezza pagina, nemmeno la biografia di Desiderio, in senso stretto, per quanto attiene le vicende più intime e private, occuperebbe più un paio di facciate. Al contrario, però, la ricostruzione operata da Gasparri del panorama politico e sociale da cui emerse Desiderio è molto ampia e per certi versi innovativa e sorprendente.
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Dopo Manzoni, in effetti, non c’è più stato in pratica nessun autore che, per tutto il XIX secolo e poi per gran parte del XX secolo, abbia sostenuto posizioni da lui condannate, tanta è stata la forza del pensiero di Don Lisander. Il giudizio negativo sui Longobardi (barbari, stranieri, selvaggi, violenti, invasori), è stato a lungo inestirpabile; non solo: per lungo tempo si è pensato a una frattura mai sanata fra la componente della popolazione ‘Latina’, e cioè genuinamente e originariamente italica, e gli ‘invasori’ Longobardi, “gente più feroce della ferocia germanica”, come li definiva G. Pepe, nel suo saggio Il medioevo barbarico in Italia (1959), facendo propria una frase di Velleio Patercolo (II, 16). E tuttavia, nota Gaparri, in effetti già a partire dal loro ingresso in Italia, poco dopo la metà del VI secolo, i Longobardi avevano perso – se mai l’avevano avuta – quella ‘purezza’ etnica, in quanto al loro popolo in migrazione si sarebbero aggiunti componenti di altre popolazioni, Gepidi, Goti, e anche militari romani ansiosi di imprimere una svolta sostanziale alla loro condizione. Non solo: attorno all’VIII secolo doveva essersi ormai compiuta l’assimilazione pressoché totale fra componente autoctona e longobarda.
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In generale, bisogna andare al di là dell’immagine di un popolo fiero e selvaggio, dedito alla guerra e alla violenza; altrimenti, non si spiegherebbe la misera e repentina fine del regno longobardo davanti ai Franchi nel 773-774. Ma questo è dovuto appunto al fatto che i Longobardi del secolo VIII erano ormai del tutto diversi da quelli dei secoli precedenti all’invasione dell’Italia: questi erano stati gruppi barbarici insediati ai confini di un Impero ormai agonizzante, che avevano come occupazione continua la guerra, condotta ora contro l’Impero ora in alleanza con esso, a seconda della convenienza del momento. I Longobardi dell’VIII secolo, però, con quei gruppi di guerrieri avevano in comune soltanto il nome, ed erano ormai gli abitanti di condizione libera del regno, che partecipavano all’esercito quando erano convocati dal re: non c’era dunque più alcun discrimine etnico fra ‘Longobardi’ e ‘Romani’. Se proprio vogliamo essere puntigliosi, questi ultimi non esistevano più all’interno del regno; lo testimonia, per esempio, un contratto, siglato a Piacenza nel 758, in cui una certa Gunderada, nome schiettamente longobardo, vende un appezzamento di terreno, ed è definita honesta mulier, cioè, “donna di buona condizione”, ma anche Romana mulier, “donna romana”. Ovvero: gli abitanti liberi del regno erano, con pochissime eccezioni, i Longobardi stessi: quelli che venivano definiti ‘Romani’ erano gli abitanti delle regioni dell’Italia bizantina (che vivevano secondo le leggi romane), da poco annesse al regno, oppure gli immigrati dalle terre bizantine, le quali vivevano una crisi ormai irreversibile. La sola aristocrazia che avesse mantenuto le tradizioni e lo spirito guerriero delle origini era quella del Friuli, impegnata senza soluzione di continuità in lotte contro Svevi, Avari e popolazioni di confine, e in cui quindi i valori guerrieri erano obbligatoriamente praticati dall’aristocrazia.
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E Desiderio? La fonte più nota e accurata di notizie per quanto riguarda il regno longobardo, Paolo Diacono, nativo di Cividale del Friuli, interrompe la sua Historia Langobardorum al 744, con la morte di Liutprando; non narra quindi la storia degli ultimi tre re, i due fratelli Ratchis e Astolfo, prima duchi del Friuli e poi sovrani, e Desiderio. La storia degli ultimi trent’anni di vita del regno longobardo, quindi, dipende dalle voci esterne al regno, franche e papali: manca completamente una voce longobarda contemporanea. E Desiderio? La sua ascesa al trono è narrata dal Liber pontificalis, raccolta di biografie papali, stereotipate e spesso criptiche nella loro estrema sintesi. Verso la fine del papato di Stefano II (752-757), l’anonimo chierico romano autore della sua Vita ci informa che il re longobardo Astolfo, l’infelix Aistulfus, che era stato il maggior antagonista del papato, era stato percosso dall’ira divina, morendo improvvisamente per un incidente di caccia. E a quel punto, narra il Liber Pontificalis, “Desiderio, duca dei Longobardi, che era stato inviato dalle parti della Tuscia dal medesimo nequissimo Astolfo, sentendo che il predetto Astolfo era morto, riunendo in fretta tutto il numeroso esercito della Tuscia, cercò di impadronirsi del culmine del regno dei Longobardi”: l’impressione è quella di un uomo nuovo alle alte sfere del potere, dato che il biografo papale tradisce lo sforzo (nisus est, “cercò, si sforzò”), di arrivare a una posizione difficilissima da raggiungere, il fastigium regni, il “culmine del potere”. Inoltre, l’espressione letterale del testo è che Desiderio fu “mandato al regno”, ovvero, diremmo oggi “messo sul trono”: ma da chi? Le poche fonti delineano un forte conflitto dentro il regno longobardo: Ratchis, fratello di Astolfo e re prima di lui, era uscito dal monastero di Montecassino dove si era ritirato quando, nel 749, aveva rinunciato al regno, e si era messo alla testa di parecchi optimates Langobardorum, cioè dell’aristocrazia del regno, soprattutto di quella di origine friulana, tradizionalmente la più animosa, e si stava dirigendo contro Desiderio per fargli guerra. In altre parole, Desiderio sarebbe diventato re con un colpo di stato contro cui i nobili erano pronti a reagire; per cui, il nuovo sovrano aveva chiesto con molta forza l’aiuto papale, per poter assumere appieno la dignità regale, e giurando che avrebbe fatto in ogni cosa la volontà di Papa Stefano.
Ma i rapporti con il papato presto si guastarono, in forza della nuova alleanza che esso cementò con i Pipinidi, la dinastia di Pipino il Breve, e dei figli Carlo Magno e Carlomanno. Le fonti documentarie e archeologiche sono abbastanza chiare nel presentarci lo sforzo di Desiderio, insieme con la moglie, Ansa, di creare una dinastia, in un momento peraltro difficilissimo della storia nazionale: lo dimostra la fondazione del monastero di San Salvatore, in Brescia, la città da cui doveva essere originario il sovrano. Il monastero cittadino, dove doveva essere badessa una delle tre figlie della coppia regale, Anselperga, era concepito come centro di potere, e la sua chiesa come sede del sacrario familiare della dinastia; un’altra fondazione monastica, nel sito detto Leones, cioè Leno, è ulteriore testimone del legame fra Desiderio e il territorio bresciano.
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Anche la politica matrimoniale di Desiderio testimonia di questa volontà di potenza, visto che le altre due figlie divennero spose di Carlomanno e Carlo Magno. Ma le cose andarono diversamente dalle previsioni del padre: Gerberga ebbe da Carlomanno due figli, ma rimase improvvisamente vedova; Desiderio tentò di contare sull’appoggio dei seguaci di Carlomanno, chiedendo l’unzione regale per i nipoti, per consacrarli eredi del loro padre e quindi re dei Franchi, allo scopo di isolare Carlo Magno; ma non ci riuscì, e Gerberga dovette con i due bambini rientrare in Italia, bollata dalla storiografia franca come moglie malivola, ‘malvagia’, e pessima consigliera del marito. Peggio ancora andò alla terza figlia di Desiderio e Ansa, quella che l’Adelchi manzoniano chiama Ermengarda, ma di cui noi non sappiamo nemmeno il nome, dopo la feroce damnatio memoriae che subì il vertice del regno longobardo in seguito alla conquista franca: il testo noto come Gesta Karoli, scritto dal monaco di San Gallo Notkero Balbulo a fine IX secolo, pone le premesse per la trasformazione della vita di Carlo Magno in materia epica, e parla di questa moglie come di una consorte “malata e sterile”, ripudiata con il consenso dei sacerdoti “come se fosse stata morta”. A questo punto, scrive Notkero, Desiderio si ribellò contro “l’invincibile Carlo”, ma, benché chiusosi dentro le mura della capitale fortificata, Pavia, non poté resistere alla potenza del Re dei Franchi, che godeva di una netta supremazia nel numero degli armati, ma, soprattutto, della protezione divina.
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Svanì così ben presto anche in Italia il ricordo dell’ultimo re longobardo, sotto la coltre di una lettura degli eventi che era quella dei vincitori, cioè franco-papale. Però, in fonti più tarde, qualcosa riemerge, soprattutto a Salerno, dove, come in tutto il Sud rimasto longobardo, la tradizione del regno era forte. Lì, in pieno X secolo, il Chronicon Salernitanum racconta del lungo e pacifico regno del “pio re” Desiderio, che pure all’inizio venne funestato dalle ribellioni di Beneventani e Spoletini. Poi, dopo anni di apparente pace, la situazione precipitò: scoppiato un aspro conflitto dentro l’élite longobarda, alcuni dei capi mandarono un’ambasceria a Carlo e lo invitarono a venire in Italia a impadronirsi del regno, promettendogli di consegnare nelle sue mani, oltre a grandi ricchezze, anche Desiderio. Costui, tradito, venne quindi consegnato nelle mani del sovrano franco che lo fece accecare.
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Ma c’è anche un’altra tradizione circa la fine misteriosa di Desiderio: Franca d’Amico Sinatti, studiosa e storica di vaglia, nel suo Il mistero del Silenzio (Raffaelli editore, 2005), racconta, con lo strumento dell’invenzione romanzesca, di un re fattosi monaco per il bene del suo popolo a Montecassino, e poi sepolto nel monastero di Leno, in terra bresciana; un re costretto al silenzio, ma sempre presente fra i suoi, nella terra da cui era nato e che l’aveva reso, per pochi, brevi anni, un grande della Storia.
Silvia Stucchi
*In copertina: Arechi II (734-787), duca longobardo di Benevento, miniatura dal Codex Legum Langobardorum
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Sabato 15 dicembre al teatro Ariston di Sanremo sarà presentato il musical “Malefica e la bella addormentata nel bosco“
Sabato 15 dicembre 2018 Teatroeventi, in collaborazione con la Band degli Orsi Onlus dell’Ospedale Giannina Gaslini di Genova, presenta il consueto appuntamento annuale con il musical “Malefica e la bella addormentata nel bosco“. La compagnia Neverland, dopo i successi ottenuti a Genova Milano e Torino, approda sul prestigioso palcoscenico del teatro Ariston di Sanremo consapevole di far divertire grandi e piccini. Sono in programma 3 rappresentazioni, alle ore 15, alle ore 18 e alle ore 21. Per informazioni e acquisti contattare la società TEATROEVENTI allo 0183530580.
I biglietti rimasti saranno messi in vendita al botteghino il giorno dello spettacolo.”In un regno incantato vivono un re e una regina che non possono avere figli. Un bel giorno re Stefano e regina Lili convocano a palazzo Merida, la fata dai poteri straordinari, che purtroppo non può aiutarli perché la sua magia agisce solo su cose e fatti già esistenti; così Merida consiglia ai due sovrani di chiedere aiuto a Malefica la strega dell’oscurità. In preda alla disperazione il re e la regina decidono di andare da Malefica che vive nella selva oscura con il corvo Fosco suo fedele amico, Carabosse la fata traditrice che brama a diventare una vera strega e i trolls mangia ciccia.
Re Stefano per ottenere l’aiuto di Malefica le promette di non mettere mai più piede nella selva oscura e così neanche un anno dopo nasce Aurora. Per il suo battesimo Aurora viene promessa in sposa al princino Filippo e tra gli ospiti ci sono le tre fate Flora, Fauna e Serenella che sono venute a portare speciali doni alla piccola. Purtroppo però appare Malefica amareggiata per il mancato invito e tremendamente adirata perché il re non aveva rispettato i patti. Così per vendicarsi maledice la principessina proclamando che prima del tramonto del suo sedicesimo compleanno si pungerà un dito con il fuso di un arcolaio e morirà.”
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Sabato 15 dicembre al teatro Ariston di Sanremo sarà presentato il musical “Malefica e la bella addormentata nel bosco“ Sabato 15 dicembre al teatro Ariston di Sanremo sarà presentato il musical “Malefica e la bella addormentata nel bosco“
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Di Stefano a #tribunapolitica: “Pescare i migranti in mare per intascare 1050€ e mandarli ad elemosinare è inumano. Vogliamo rimpatriare i migranti e ricostruire Stati sovrani, forti, liberi in Africa. Un piano di sviluppo in Africa azzererà l’immigrazione”.#OraVotoCasaPound pic.twitter.com/YLvuOBT5fy
— CasaPound Italia (@CasaPoundItalia) February 27, 2018
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